Topolino e l’orfanello riformato **** (1954)

Topolino e l’orfanello riformato **** (s. t., poi Mickey Mouse – The Kid Gang, USA 1954, b/n, 104 strisce) Bill Walsh (S) e Floyd Gottfredson (D), strisce giornaliere 17/5-14/9/1954. Topolino trova davanti alla porta di casa un bambino in un cesto. Nota subito che c’è qualcosa di strano quando una lettera acclusa comunica che l’infante mangia solo costolette e gelati al cioccolato e quando le cose preziose che ha in casa cominciano a sparire. In realtà il bambino è più grande di quanto sembrava, si chiama Leavenworth Lee [Lino Valelapena nell’edizione italiana] ed è scappato dal riformatorio. Il processo di integrazione di Leavenworth – proveniente dalla peggiore delinquenza – è difficile ma segue il suo corso, fino a quando a limitare la sua libertà intervengono i responsabili del riformatorio e gli scagnozzi del criminale Big Ben, proprietario di uno sfavillante ed efficiente centro per l’addestramento alla malavita, adirato perché Leavenworth ha smesso di lavorare nella sua banda. L’inclusione del nuovo personaggio (una sorta di Baby Herman ante litteram, almeno quando inizialmente si spaccia per neonato) crea un notevole dinamismo fra i characters dell’entourage basilare, generando inediti confronti psicologici, grazie ai quali tra l’altro emerge la consapevolezza dei personaggi di appartenere alla media o piccola borghesia. Le certezze familiari e ordinarie di Topolino sembrano lì lì per crollare più volte in una manciata di sequenze di grande impatto, valorizzate dall’ottima mimica di Topolino sul filo del rasoio. Efficace è il parco giochi, una sorta di paese dei balocchi organizzato dal grasso e rubicondo Big Ben che ne vieta l’ingresso agli adulti per educare i ragazzini al crimine (Topolino vi si intrufola fingendosi bambino, in un costume spaziale e con la s blesa), ma ancor più incisivi sono le bambole e i giocattoli assassini che Topolino è costretto a fronteggiare completamente da solo (e i discorsi precedenti di Big Ben suggeriscono che in passato bambini riluttanti siano morti tra le loro braccia meccaniche). Le tipiche invenzioni visionarie di Walsh si amalgamano quindi meglio del solito coi sottintesi della trama (anche se gli americani lo hanno accusato di indulgere un po’ troppo nell’umorismo nero col parallelo bambini criminali-giocattoli omicidi), ampliando decisamente la loro portata fino a toccare temi quali lo sfruttamento e il condizionamento nell’età formativa, inconsueti nelle storie di Topolino (contrariamente all’accusa di mancata coordinazione interna che muove a questa storia l’attuale critica statunitense). Shock la sequenza in cui Topolino vede Tip che fuma il sigaro insieme a un poco di buono (come se i due stessero replicando la coppia Pinocchio-Lucignolo del film Disney). Tip finalmente ha nella striscia un ruolo primario e fondamentale, anzi Topolino arriva spesso molto più tardi rispetto all’efficienza di Tip e del suo corpo scout (nello script è un esempio di pre-adolescenza normie ed efficiente). È un monito per un oculato investimento nella formazione delle nuove generazioni da parte di un Walsh in vena di pragmatico buon senso. In un periodo in cui le baby gang erano ai primi posti nella cronaca (anche per aver compiuto omicidi) e molti giornali incolpavano di ciò «i fumetti», quella di Walsh è una pronta presa di posizione in difesa del medesimo. Gli sforzi di Topolino per “salvare” Leavenworth hanno un esito positivo solo perché il bambino non ha il crimine nel sangue? Riguardo ciò, da parte sua la sequenza di foto che mostra una catena intera di Big Ben (I, II, III ecc…) sembra alludere al concetto di ereditarietà (o genetica?) del crimine, trattato da William March nel suo romanzo Il seme cattivo o I semi del male (The Bad Seed) in quello stesso 1954. I bambini di Walsh sembrano contenere in nuce i germogli della delinquenza: allora come ora, oltre 60 anni dopo, è comunque accettare la regolamentazione sociale (con tutti i suoi pro e contro) a permettere all’individuo di avere una vita degna del generale rispetto. Negli USA, come per la maggior parte delle storie di Walsh degli anni ’50 (tutte recentemente ristampate nella raccolta cronologica dedicata a Gottfredson), l’importuno approccio fin de siècle della critica ufficiale alla striscia di Mickey Mouse (una critica manifestamente nostalgica del Topolino classico degli anni ’30 e poco propensa ad accettarne ulteriori declinazioni) le ha impedito di gradire la pregevolezza formale di questa storia per concentrarsi sulle sue manchevolezze: ovvero, lo script non approfondisce le altre cause del problema emarginazione (la formalità, il perbenismo, la burocrazia all’ingresso della modernità: temi di lì a breve toccati al cinema da François Truffaut), limitandosi a un breve cenno del ruolo della tv e trovando la soluzione per Leavenworth nell’accoglienza presso una famiglia conformista. Infatti, Leavenworth guarda all’apparecchio un incontro di boxe, nel mentre fuma un sigaro: all’epoca i sociologi opinavano appunto su come novità quali la televisione facessero «crescere troppo velocemente» i giovani alterando il corso naturale della loro maturazione. Certo se al giovane manca un ruolo di guida la frittata è fatta, e se pensiamo alla nuova serie di codici comportamentali che hanno instaurato i recenti social network (causando l’emarginazione di chi non vi si attiene) quelle polemiche non ci appaiono più tanto aleatorie. Ma è pur vero che Walsh – forse “costretto” dai tempi travagliati a elaborare questo particolare script, vi include le sue tipiche frecciate contro le istituzioni, e a come esse gestiscono i giovani: l’ente «ri-formativo» con metodi intimidatori e soffocanti è un lager; Leavenworth – timoroso fino alla fine della vita piccolo-borghese (tenta di scappare non appena Basettoni e Topolino discutono su chi dei due sia più idoneo ad adottarlo) – abilmente la scansa per reintegrarsi nella società per vie laterali (Leavenworth insiste per adottare i 24 coetanei del suo vecchio istituto). La ritrovata madre milionaria non è (più) un’americana media: forse partita da basi umili, è ora la vedova più ricca dello stato e la sua manifesta «eccentricità» è riconosciuta sia da Topolino che da Basettoni. A conti fatti, si tratta di un primo tassello dell’adozione walshiana di temi quotidiani intensi e controversi, di cui se ne rimpiange ancora la precoce interruzione di lì a breve. Pur mostrando il fianco a possibili critiche ideologiche, questa storia (una sorta di versione aggiornata e corretta dell’Oliver Twist) è un composto – peculiarmente walshiano – di impegno morale e pathos che sarà arduo – se non impossibile – rintracciare nella produzione Disney dei decenni successivi. Alcune cronologie escludono il brevissimo incipit slegato (che a solo è noto anche col titolo informale Modern Furniture: Minni arreda la casa di Topolino secondo le nuove mode) e accorpano alla storia le strisce che a dirla tutta costituiscono l’avvio della continuity successiva, Topolino e lo zio in ozio. Conosciuta anche in via informale come Leavenworth Lee Reform School Kid, mentre da noi come Topolino e l’orfanello o Topolino e il trovatello milionario (titolo che anticipa la sorpresa conclusiva).

Fonti:

Link Inducks: YM 135

Charles Wright Mills, White Collar. The American Middle Classes. Fiftieth Anniversary Edition, Oxford University Press, New York – Oxford, 2003.

David Riesman, Nathan Glazer, Reuel Denney, The Lonely Crowd. A Study of the Changing American Character, Yale University Press, New Haven & London, 2001.

James Gilbert, A Cycle of Outrage: America’s Reaction to the Juvenile Delinquent in the 1950s, Oxford University Press, New York – Oxford, 1986.

Thomas Andrae, Of Mouse & Man 1953-1955: Last of the Wine, in David Gerstein (ed.), Floyd Gottfredson, Gary Groth (ed.), Mickey Mouse: The Mysterious Dr. X, «Floyd Gottfredson Library» #12, Fantagraphics Books, Seattle (WA), 23 gennaio 2018, pp. 8-13.

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